Proprio nell’ ombra ho cominciato la mia carriera di traduttore letterario quasi per caso, sicuramente per passione. E nell’ombra resto. Collaboravo con una rivista, per la quale mi divertivo a tradurre articoli tratti da pressoché sconosciute riviste straniere. Un amico mi disse che me la cavavo bene, e di provare a contattare l’editore per cui lavorava lui. Lo feci, con una proposta editoriale, un libro su un argomento fino a quel momento poco trattato in Italia, e quello fu il primo di una novantina di libri in oltre vent’ anni di carriera. Avrei poi scoperto, anche confrontandomi con colleghi, che quel genere di approccio – presentarsi a un editore con un libro inedito che si vorrebbe tradurre – era molto più produttivo che distribuire cv alla cieca. Erano certo tempi ben diversi: lavoravo con il supporto di dizionari cartacei di vario genere e il mio primo computer, acquistato proprio per poter tradurre, aveva la bellezza (si fa per dire) di 2 Mb di RAM e un hard disk di 40 Mb, era un piccolo Apple che costava una fucilata. Internet non esisteva ancora, eppure pochi anni dopo non avrei neppur immaginato di poter tradurre opere talvolta molto complesse senza l’aiuto di motori di ricerca e compagnia bella. Molte cose sono migliorate, altre rappresentano una sfida quotidiana, ci tornerò in seguito, ma intanto parliamo di gratificazioni.
“Sono così grato ai traduttori. È un lavoro così incredibilmente sottovalutato. Il traduttore deve in qualche modo entrare in una mentalità, e, così dire, raccogliersi davanti allo stesso altare. Una volta ho conosciuto il traduttore americano di Mallarmé e Corbière. Era solito sedersi sulle loro tombe per ‘entrare’ nella loro anima” ( J. Hillman nel suo Il linguaggio della vita, Rizzoli). Parole sante, per giunta pronunciate da uno degli autori che amo leggere, uno dei rari complimenti ricevuti dalla categoria dei traduttori, senz’altro anch’essa nell’ombra, e senza neppure una “voce” con cui farsi sentire . Per carità, nel mio caso non si tratta di poeti dello stampo di Mallarmé o Corbière, anzi non ci sono poeti e basta. Traduco saggistica e soltanto occasionalmente ho dovuto cimentarmi con versi e strofe. Ma sull’entrare in una mentalità, raccogliersi davanti allo stesso altare ed entrare in un’anima forse posso accennare qualcosina.
Raccogliersi… Mi viene in mente l’epoca delle prime traduzioni di Pierre Dukan. Quando si traduce non-fiction capita un po’ di tutto – ovviamente dev’esserci un minimo di predisposizione, e ho talvolta rinunciato a lavori in cui si trattava di argomenti di cui non solo non sapevo nulla, ma non volevo sapere nulla. Nel caso di Dukan si trattava di ingredienti e ricette dell’omonima dieta, da adattare all’Italia e ai prodotti disponibili in patria. Avevo accettato con entusiasmo, perché mi piace cucinare e inoltre avevo qualche chilo da smaltire. E allora mi rivedo buffamente “raccolto” davanti agli scaffali di Carrefour in Francia, e di Conad e Coop in Italia, intento a studiare le composizioni e le percentuali di grassi. In Francia i prodotti allo 0% di MG erano già molto diffusi, in Italia c’era una ridda di prodotti “light” che poi, alla luce dei fatti, tanto leggeri non erano. Certo, era una raccogliersi assai prosaico, ben diverso dal raccogliersi davanti alla tomba del poeta! Ma non mi sono limitato a meditare sulla natura fino a quel momento oscura della ricotta magra o del formaggio fresco. Ho fatto di più: quei prodotti li ho comprati, e la dieta Dukan l’ho sperimentata. Come restare indifferenti, di fronte a tutte quelle novità culinarie? Bisognava provarle, oltre che tradurle!
Fatto sta che è ben raro che un libro o un autore su cui passo lunghe settimane, vedi mesi di lavoro, mi lasci completamente indifferente. Certo, ci sono libri che restano semplici conoscenti, che talvolta riprendo in mano e sfoglio, chiedendomi: «Ma questo l’ho tradotto davvero io?”, tanto poco hanno scalfito l’anima. Ma ce ne sono altri che si trasformano in amici, se non addirittura intimi amici. S’instaura molto spesso un processo di osmosi, fors’anche d’imitazione, un ispirarsi, un flusso tra autore e traduttore, tra opera originale e testo tradotto. Un incontro di parole che talvolta è molto più d’un processo meccanico, che compie qualcosa che google translator non può fare: penetra l’inconscio. A ciò si aggiunga il fatto che, quando possibile, contatto l’autore che sto traducendo, se posso lo incontro, intendendo stabilire un contatto umano, oltre che professionale, cosa che mi facilita l’opera, perché posso meglio immaginarmi come quell’autore si atteggerebbe o pronuncerebbe le parole che gli metto in bocca con la mia traduzione. Per esempio, una volta, dopo aver tradotto un’opera di uno sciamano nativo americano (che in privato si era lamentato con me del fatto che il figlio s’era molto “americanizzato”, e non aveva nessun interesse per le tradizioni ancestrali), sognai che un gruppo di nativi mi regalava un cavallo bianco, in segno di ringraziamento per la mia fatica. Ricordo bene quel sogno, per un dettaglio ironico: al cospetto di quei maestosi guerrieri tenevo il cavallo per la briglia, imbarazzato, e confessavo di non saper bene che farmene, perché a cavallo non c’ero mai andato. E loro ridevano, ossì come se la ridevano. Un sogno stupendo, e di certo non l’unico frutto del contatto con un libro e un autore.
Mi è capitato spesso di tradurre maestri buddhisti, una filosofia che mi ispira profondamente da oltre una trentina d’anni, e questi particolari incontri hanno sempre lasciato un segno profondo nella mia anima. Talvolta mi è capitato, nell’accingermi a tradurre opere dell’attuale Dalai Lama, di sentirmi quasi in obbligo di mantenere la mente pura e limpida per tutta la durata della traduzione, quasi dovessi in qualche modo adattarmi a una disciplina etica particolare per rispetto dell’autore che stavo traducendo (il che si è tradotto almeno momentaneamente in uno stile di vita quasi monastico). In altri casi l’impatto è stato persino maggiore. Per esempio, sta per andare in stampa la mia ultima traduzione di Matthieu Ricard, monaco, autore e fotografo francese, un libro dedicato al rapporto tra uomo e animali (il titolo dell’originale è Plaidoyer pour les animaux, non conosco ancora il titolo italiano – a noi traduttori non è dato sapere in anticipo che titolo avrà ciò su cui stiamo lavorando). Ricard è vegetariano e nel libro, circa 400 pagine zeppe di note e riferimenti (una bella ma gratificante faticata) perora la causa vegetariana e vegana. Io ero già stato vegetariano in passato (rinunciando poi per pura pigrizia mentale: i vegetariani una trentina d’anni fa non erano affatto alla moda, e occorreva continuamente ‘giustificarsi’, generando un insostenibile imbarazzo nei convitati ogni volta che si sedeva a tavola…) e dopo aver tradotto le pagine in cui si descrive cosa accade realmente nei macelli e si spiega quanto il carnismo costi al pianeta, in termini di inquinamento, spreco di risorse, eccetera, ho immediatamente sentito che in me accadeva qualcosa. Ho “saputo” che non avrei più potuto mangiare carne. E così è stato: sono tornato a un regime vegetariano, devo dire senza nessuna fatica, sono passati ormai 5 mesi e credo proprio che non farò più marcia indietro.