Parafrasando un maestro come Roberto De Monticelli, devo dire subito che la mia “educazione” – sentimentale e professionale – al cinema ed al teatro, iniziata per svariate ragioni sin dall’infanzia, ha nutrito verso il “doppiaggio” una sorta di ammirazione mista a timore reverenziale. A mio agio sia nel buio dei cinemini rionali, sia tra le quinte del vecchio “Don Bosco” e “Angelo Musco” (in quel di Catania), avvertivo “le voci interiori” di quegli interpreti non italiani come una sorta di porticina segreta, misteriosa, impenetrabile. Teoricamente sapevo benissimo cosa fosse il doppiaggio, in pratica immaginavo la saletta di registrazione come un antro delle meraviglie, una segreta di alambicchi vocali e fantasmi jamesiani. Solo in età matura ho conosciuto, tramite amici come Gullotta, Cortesi, Zammuto, cosa fosse in realtà quel laboratorio, quel mestiere affascinante e forzato che consiste nel trascorrere ore e ore a produrre “anelli”, a non sforare nel labiale, a sincronizzare le proprie note vocali su quelle dell’attore-guida (che indifferente “scorre” su uno schermo poco più grande di una vecchia moviola). Che mestieraccio, ho pensato (ma anche: come sarebbe bello provarci!).
Ed ancora: non basta essere un buon attore per essere un buon doppiatore. Tecnica e sentimento, solerzia e professionalità rendono in qualche misura “coatto” e gratificante il lavoro del doppiatore. Coatto perché costretto a “non diluire” le battute, così come sarebbe a teatro o nel cinema in presa diretta (viceversa “al servizio” dei tempi e delle brevi pause dell’attore o dell’attrice stranieri). Gratificante perché capace di affermare quella che, per neologismo, vorrei definire “la physique de voix” – non secondaria alla “physique du role” di stampo naturalista. Occorrerebbe tanto più spazio per inoltrarsi in queste riflessioni. Colgo invece l’occasione per focalizzare due o tre riflessioni che, mesi or sono, non avevo avuto modo di esprimere riferendovi di Finale Ligure, in occasione della rassegna Voci nell’ombra. In primo luogo rafforzare, nero su bianco, l’istanza che da qualche tempo agita l’umanità dei doppiatori: ovvero il diritto, da sancire per vie sindacali e legali (in attesa della nuova legge sul cinema…campa cavallo!), di vedersi attribuiti dei loro nomi e cognomi a fianco dei vari interpreti del film, sin dallo scorrere dei titoli di testa (considerando quelli di coda del tutto superflui, non qualificanti, talvolta nemmeno proiettati). Ed ancora l’opportunità di affidare l’apprendimento del doppiaggio non tanto alla casualità o alla gavetta dell’attore e dell’attrice (per non parlare delle improvvise e talvolta truffaldine “scuole private” di avviamento), quanto agli statuti (anch’essi da rivedere) delle due più importanti, o almeno istituzionali scuole nazionali di spettacolo: l’Accademia di arte drammatica e l’ex Centro Sperimentale di Cinematografia. Un ultimo sommesso consiglio: è bene che attori ed attrici prevalentemente operativi “nell’ombra” imparino a venire allo scoperto; affranchino se stessi dalla diffusa (ed errata) opinione che “darsi al doppiaggio” sia un’alternativa alimentare dell’attore senza scritture. O intorpidito dalla routine della suddetta camera oscura. È giunto il tempo che “le voci di dentro” (fior di interpreti che non tocca a noi citare) escano dal loro “ghetto” nemmeno poi tanto dorato; che – d’intesa con tecnici e direttori di doppiaggio – giungano alla ribalta di iniziative ove l’abbinamento (sostanzialmente estetico) di “physique de voix” non debba essere né una limitazione, né una sorgente di timidezza. Giù la (invisibile) maschera, e tanti auguri di cuore.
da Primafila n. 82 marzo 2002
Monografia a cura di Tiziana Voarino
La voce nell’ombra