Gualtiero De Angelis

Gualtiero De Angelis

Pur se la stampa quotidiana sorvolò  sull’ episodio, la “bottiglia molotov” scoppiò la mattina del 5 settembre 2001 nella Sala conferenze del Casinò al Lido di Venezia.
Claire Peploe incontrava i giornalisti dopo la proiezione notturna del suo film in concorso, Il trionfo dell’amore.

Al tavolo dei microfoni sedeva pure Bernardo Bertolucci, co-sceneggiatore e produttore di questa elegante (ma, a nostro avviso, un po’  accademica) riduzione del testo teatrale di Pierre Carlet e Chamblain dit Marivaux.

Appena, nell’ incrocio di domande, si toccò l’argomento del doppiaggio, la bionda occhialuta, deliziosa cineasta andò in escandescenze. “Francisco Franco, Adolf Hitler, Benito Mussolini – modulava Claire su toni alti – hanno cominciato a far doppiare i film.”

E a mo’ di esempio citò i “bisticci” linguistici della traduzione italiana de L’ultimo tango a Parigi.

La connivenza fra dittatura  e traduzione dei manufatti cinematografici meriterebbe  – non v’è dubbio – di essere verificata storicamente.
A noi, ad esempio, pare di ricordare che fu Hollywood, negli anni trenta, a creare nei propri mega-studios  i laboratori di sincronizzazione italiana, onde conquistare una appetibile fetta di mercato.

Del resto, l’alternativa al doppiaggio è il sottotitolo, o didascalia – come dice chi non ama le parole/ippogrifo. A meno che, in un’era futuribile, non potremo intersecare neuroni interlineari nel cervello degli spettatori; o si imponga allo “show business” di produrre in esperanto tutte le pellicole.

Per restare ai fatti, il sottoscritto ha penato per seguire, a Cannes, Il mestiere delle Armi, di Ermanno Olmi, poiché al Palais i fotogrammi italici venivano diligentemente corredati di traduzione doppia – francese sopra, inglese sotto – e le immagini “scomparivano”.

Quando ascoltiamo la conversazione della signora Peploe, la Mostra di Venezia volgeva al termine. Il giorno precedente nella prima pagina del Corriere della Sera Al Pacino aveva elogiato la voce di Ferruccio Amendola, evocando commosso il “lunghissimo tratto di strada, di vita e di carriera fatti insieme”.

I giornali dedicavano lunghi articoli all’ attore scomparso e l’ira peoploiana strideva contro le regole minime, irrinunciabili, del buon gusto.

In quel momento, il nostro pensiero andava a Stanley Kubrick che ammetteva la legittimità del doppiaggi, o beninteso “controllando” le corde delle ugole italiane chiamate a rendere comprensibili i suoi capolavori. Il genio di Full metal jacket era ben consapevole che i sottotitoli distraggano lo spettatore dall’ immagine.

Bisogna fare le cose per bene, è ovvio. Bisogna conservare, fin dov ’è possibile, l’araldica “film e fono-film” di cui teorizzava Vsevolod Pudovkin. E, custodendo la memoria delle “impeccabili assonanze”, da Emilio Cigoli a Gualtiero De Angelis, da Giulio Panicali a Stefano Sibaldi, riconoscere che i fiati e la professionalità dei nostri doppiatori hanno reso familiare una leggenda straniera.

Al di là di ogni snobismo: per noi iloti che continuiamo ad andare al cinema o a  a rivederlo sul piccolo schermo.

Prima Fila

da Primafila n. 82 marzo 2002
Monografia a cura di Tiziana Voarino
La voce nell’ombra