Le “zingarate” di Gastone di Roberto Uggeri
Le “zingarate” di Gastone Moschin. “Porca puttana! Come vorrei che venisse fuori un funeralone da fargli pigliare un colpo a tutt’e due a quelli! E migliaia di persone! Tutti a piangere … e corone, telegrammi, bande, bandiere, puttane, militari …”.
Sbotta così, con la voce rotta dal dolore, l’architetto Rambaldo Melandri contro la moglie e il figlio del Perozzi che giace nel suo letto di morte.
Attorno ci sono il conte Raffaello Mascetti, il professor Sassaroli e, defilato, in un angolo della stanza, il barista Guido Necchi. Il set è quello di “Amici miei”.
A dare voce allo sdegno dell’architetto Melandri è Gastone Moschin. Con lui ci sono Ugo Tognazzi, Adolfo Celi e Duilio Del Prete. Philippe Noiret è l’amico giornalista defunto.
Quella battuta mi ha colpito da quando l’ho sentita. Curioso sia anche il primo pensiero mentre apprendo della scomparsa proprio dell’attore che la pronuncia. Mi ha impressionato per la tensione emotiva del momento: da un lato l’aridità della moglie che non perdona il marito, nemmeno dopo averlo visto privo di vita, anzi insinua il dubbio che sia uno dei suoi soliti scherzi; dall’altro il dolore degli amici che piangono il compagno di mille burle e zingarate. Quando moglie e figlio se ne vanno, l’architetto Melandri immagina per l’amico un ultimo saluto, un’uscita di scena, in grande stile. Sa bene, lui per primo, che non sarà così, ma ci vuole credere, con rabbia, dolore, mestizia e un moto d’orgoglio, infila tutto d’un fiato il suo breve e appassionato monologo. Vero, vivo, palpitante, come solo i grandi attori sanno fare. Come se stesse accadendo veramente, proprio lì, in quel preciso istante. Cristallizzato nella regia malinconica dell’immenso Mario Monicelli che raccolse l’eredità e il progetto di Pietro Germi. Fu proprio Gastone Moschin a raccontare come il titolo fosse riferito all’addio al cinema del regista genovese di nascita che non fece in tempo a realizzarlo, ovvero: “amici miei, ci vedremo, io me ne vado”.
Bizzarro come, di tutto quel che ci ha regalato nella sua monumentale carriera l’attore nato a San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, nel ’29, nel mio immaginario, ma credo nell’immaginario collettivo, sia, alla resa dei conti, rimasto il romantico interprete della commedia di Monicelli.
Eppure ha fatto veramente di tutto e di più Gastone Moschin: teatro impegnato, cinema, persino hollywoodiano, fiction tv, quando ancora si chiamavano “sceneggiati”.
Comincia la sua formazione teatrale negli anni ’50. Prima nella Compagnia del Teatro Stabile di Genova e del Piccolo di Milano, poi collabora con lo Stabile di Torino. Si avventura nei classici: “Zio Vanja”, “Il giardino dei ciliegi” di Čechov e “I giganti della montagna” di Pirandello. Nei primi anni ’80 forma una propria compagnia per portare in scena Goldoni, Miller e ancora Čechov, questa volta con “Il gabbiano”.
L’esordio al cinema è del 1955 con “La rivale”, di Anton Giulio Majano. Nel 1959 si cimenta nella commedia all’italiana, grazie a Nanni Loy che lo vuole in “Audace colpo dei soliti ignoti”. Ma il ruolo che lo fa emergere all’attenzione del grande pubblico è del ’62 quando interpreta il fascista codardo, Carmine Passante, nel film “Gli anni ruggenti” di Luigi Zampa.
Da quel momento in poi la sua ascesa non si ferma più, che vesta i panni del protagonista o della spalla di lusso, non fa alcuna differenza. Ogni interpretazione una maschera differente. Nel 1963 è un quarantenne deluso ne “La rimpatriata” di Damiano Damiani o un camionista innamorato in “La visita” di Antonio Pietrangeli. Due anni dopo centra un grande successo commerciale con il ruolo di Adolf, nella commedia d’azione, di Marco Vicario, “Sette uomini d’oro”. Il 1966, invece, è l’anno dell’indimenticabile “Signore & signori” di Pietro Germi, grazie al quale riceve il primo Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. Il secondo arriva per l’ultimo capitolo di “Amici miei”. A confermare il suo carattere istrionico, lo vediamo poi nella toga dell’avvocato guascone di “Italian Secret Service”, diretto da Luigi Comencini, o nel doppiopetto del banchiere di “Dove vai tutta nuda?”, di Pasquale Festa Campanile. Poliedrico, come pochi, passa con disinvoltura da un genere all’altro. Con “Gli specialisti” di Sergio Corbucci entra nel mondo “spaghetti western”. Con “Il conformista”, di Bertolucci, interpreta un raro fantasy italiano. E siamo negli anni ’70, nei quali lo ricordiamo con la tonaca di un laido monsignore, in “Roma bene”, di Carlo Lizzani. Poi è l’ambiguo Ugo Piazza del noir “Milano calibro 9”, di Fernando Di Leo, al fianco della conturbante Barbara Bouchet, in uno dei capostipiti del genere “poliziottesco”. In quello stesso periodo, nel 1972, sostituisce nientemeno che Fernandel in “Don Camillo e i giovani d’oggi”, di Mario Camerini. L’anno dopo è un convincente Filippo Turati ne “Il delitto Matteotti”. È del ’74 l’esordio a Hollywood: Francis Ford Coppola lo vuole nei panni del bieco e altezzoso Don Fanucci, ne “Il padrino – Parte II”. Quel ruolo apre un filone: interpreta il crudele bandito “Il marsigliese”, in “Squadra volante”, con Tomas Milian e Mario Carotenuto. Un personaggio che ha un tale successo da essere citato in tanti “poliziotteschi” che arriveranno dopo. Poi ancora, è il deputato comunista di “Si salvi chi può”, diretto da Roberto Faenza,  il potente ministro di “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada”, firmato da Lina Wertmüller e nel discusso “Porzius”, di Renzo martinelli, nella sua ultima interpretazione per il cinema che risale al 1997.
Intensa anche l’attività televisiva di Gastone Moschin, iniziata nel 1955 e approdata al successo, nel decennio successivo, grazie agli sceneggiati di Sandro Bolchi “Il mulino del Po” e “I miserabili”, nel quale interpreta la parte del protagonista Jean Valjean. Nei primi anni ’90 diventa popolare anche in Francia, grazie al telefilm “Macaronì”, dove interpreta con grande sensibilità il padre di un muratore italiano immigrato oltralpe. I più giovani, probabilmente, lo ricordano per le prime due stagioni di “Don Matteo” e “Sei forte maestro”.
In tutto questo trova anche il tempo per dedicarsi, seppur saltuariamente, al doppiaggio: per il cinema ha prestato la propria voce a Livio Lorenzon ne “Il vedovo”, di Dino Risi, e al celeberrimo critico cinematografico Morando Morandini, in una delle sue rare apparizioni, esattamente la prima, del ’64, quando fu diretto da Bernardo Bertolucci in “Prima della rivoluzione”.
Poi torna al leggio nel 1981, quando doppia Roboleon e altri personaggi nel cartone animato “Daikengo, il guardiano dello spazio”.
Parentesi famigliare: al doppiaggio si è dedicata anche la moglie, Marzia Ubaldi, attrice di teatro e cinema, che ha dato voce, tra le altre, ad Anne Bancroft, Judi Dench, Maggie Smith, Gena Rowlands, Jeanne Moreau e Vanessa Redgrave.
Eppure, a Gastone Moschin, malgrado la lista infinita di personaggi, solo per citare i principali, altrimenti non basterebbero pagine e pagine, restano cuciti addosso gli abiti dell’elegante architetto Melandri dei tre capitoli di “Amici miei”.
Tra le piccole curiosità che denotano l’attenzione di questo gentiluomo d’altri tempi per il prossimo, va segnalato il primo centro di ippoterapia dell’Umbria, fondato nel suo maneggio, a Capitone, vicino a Narni, dove si era ritirato dal 1990.
È scomparso il 4 settembre scorso. Aveva 88 anni.
Gastone ha indossato mille maschere.
Eppure lo ricorderemo per le sue “zingarate”.